Ultra Silvam – “The Sanctity Of Death” (2022)

Artist: Ultra Silvam
Title: The Sanctity Of Death
Label: Shadow Records
Year: 2022
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Dies Irae”
2. “Sodom Vises Himlafärd”
3. “The Sanctity Of Death”
4. “Tintinnabuli Diaboli (Interlude)”
5. “Förintelsens Andeväsen Del II: Den Deicidala Transsubstantiationens Mysterium”
6. “Black Soil Fornication”
7. “Incarnation Reverse”
8. “Of Molded Bread And Rotten Wine”

Una bufera cremisi come il terrore, nera come la morte e grigia come il perlaceo consistere delle ossa si sta per scagliare con violenza sulle coste della Scania, non casualmente né per mera circostanza geografica in Svezia. I suoi affilati artigli bruni a striare le onde di sotto e i nuvoloni di sopra sono il richiamo, una richiesta corrispondente ad un istinto lontano ma impellente, una mistica necessità: sete transilvana, quella che proviene dai misteri della ultra silvam, oltre i confini di quella che è la foresta gotica per eccellenza in tutta la cultura letteraria e popolare occidentale, di sangue marcio che puzza più dello zolfo – in questo sangue che dona la vita, la morte e l’eternità, nella sua fermentazione quasi diabolica, una trasformazione dello spirito tramite il potere della musica più rumorosa e forte che ci sia al mondo. Una tempesta a sua volta, a ben pensarci, questa musica: quella vera, autentica tempesta di fulmini e saette scarlatte che scrosciano a zampilli come il sangue dei santi, lacrime scarlatte, quale è il Black Metal quando intriso del suo più istintivo e bruciante, ortodosso ardore; dello zelo testardo ed autodistruttivo al contempo tipico di una perenne giovinezza capace di saldare e annientare qualunque sacro legame, in grado di aver fatto risplendere ogni tentativo di gloria del Redentore assolutamente invano, di far della sua casa un cumulo di rovine – capace di macchiarsi del suo omicidio in terra.

Il logo della band

Ma alla solennità immutabile di tali precetti sonori e confini semantici (quelli della selva buia e sublime sotto il notturno sguardo dei Carpazi a cui è dedicato il monicker sono, del resto, una pregnante metafora attitudinale già di per sé) gli Ultra Silvam hanno tutto sommato prestato un giuramento quantomeno peculiare che li rende, qualora ascoltati con attenzione, singolari interpreti. Se non, ancora, ambivalenti figure. Da un lato, infatti, la volontà di porsi come propaggini tese al miglioramento di un set di formule delittuose da perpetrare, e di ciò che queste vogliono incanalare tramite il progetto del trio di Malmö, sembra chiara sia nel demo omonimo e d’anteprima del 2017 che nel fortunato “The Spearwound Salvation” del 2019; e ciononostante, proprio nei solchi più profondi e gustosi di quel primo disco integrale, al netto di una chiara propensione alla selezione di ingredienti audio-visivi trovati strettamente irrinunciabili, l’intenzione strenua ed altrettanto palese di alzare le proprie barriere creative nel dialogo con una scuola tenuto proprio per poterne superare le debolezze annotate sul taccuino come limiti passati. Nei momenti più brillanti ed imprevisti, proprio nella deviazione dal corso maestro, sbuca insomma l’esigenza tangibile di sputare veleno puro sulla replica, sull’iteratio per sé vista come il tradimento stesso di una forma d’arte. Parafrasando, si tratta di trovare come perla nel fango più sporco e denso, in una grandezza che potrebbe sembrare a colpo d’occhio limitante e che per molti -troppi- altri lo è, un modo per trarre ogni granulo d’ispirazione da determinate e selezionate influenze per rendere, precisamente tramite la stretta cernita stilistica, se si vuole, le proprie visioni ancora più chiare e focalizzate.
Tre anni più tardi, gli Ultra Silvam mostrano pertanto al mondo gli esiti di un raccolto ottenuto da una semina sì difficile e controversa, ma proprio per questo cresciuta estremamente nutriente: nel nuovo “The Sanctity Of Death” i tre, elaborando tutto il meglio ed il più personale già da trovarsi in seno al primo full-length, non si sono limitati a prendere buoni appunti dalla lezione dei Nifelheim (sicuri numi tutelari) tra l’omonimo del 1995 e “Devil’s Force”, sottolineati da un sempreverde culto per il suono e i riff della sgraziatezza “Blood Fire Death”, o per le accelerazioni fulminanti dei Merciless di “The Awakening”, ma hanno invero versato nel proprio calderone il carattere distintivo delle maledizioni più potenti e rappresentative di trent’anni di musica nera in Svezia: dall’ominescente, sognante oscurità su ali di chirottero dei Dissection agli incubi famelici di sangue dell’Orthodox nazionale à la Malign, Ofermod, Watain di “Rabid Death’s Curse”, Svartsyn ed Ondskapt ma fedelmente ricalibrati tramite tutti i Marshall, le borchie, le catene, la pelle e la grafite degli anni ‘80.

La band

La prassi è mantenuta, la parola d’ordine -in questo solo e selezionato senso- non cambia: prima d’ogni altra cosa, condensazione febbrile di materiale in pochissimi secondi e minuti. Dagli apparentemente risicati ventotto soltanto dell’infiammabile debut, ai trentadue dell’incendiario “The Sanctity Of Death” in cui tuttavia ancora più carne ed ossa al fuoco vengono gettate in una graticola di minutaggi che si schiudono come uova di drago dalla media del tre ai picchi di quasi sei di una chiusura, la quale, per inventiva, supera con sprezzante facilità qualunque precedente composizione del gruppo. Le strutture si fanno inevitabilmente più complesse dall’interno e ogni brano, ognuno fedelmente provvisto e munito di sequele di storti riff piroclastici a non finire, diventa memorabile di per sé invece che ponte proteso verso la caduta di un blocco unico come poteva essere il caso in “The Spearwound Salvation”. Questo perché alla pericolosa e fantomatica prova del due gli Ultra Silvam caratterizzano con infinità di dettagli ogni canzone e tranche di album, stipando idee su idee in soluzioni dalla fittissima densità quasi disorientante, infarcendo così -e giusto a titolo esemplificativo- una eccellente “Dies Irae” (già indimenticabile in realtà fin dal diffondersi repentino dello Speed Metal nella bramosia del basso distorto, con disprezzo schiaffato in apertura) di cori sgraziati e campane mortuarie suonate a festa, impiegate al contempo come impagabile tocco melodico e ritmico, riutilizzate con grande successo al bisogno anche -ma non solo- nella scheggia impazzita che è la title-track e nella trionfante tirata finale della cacofonia oltre la grazia di Dio battezzata “Sodom Vises Himlafärd”. Da un lato gemelli eterozigoti e ancor più fratelli spirituali, quindi, dei vari Misþyrming di “Algleymi”, dei Sühnopfer di “Hic Regnant Borbonii Manes” e degli Ungfell di “Es Grauet”, dall’altro artefici splendidi di un autentico e gretto quanto inventivo Metal of Death d’autore: casinisti figli sghembi e sgraziati per concetto innanzitutto delle apocalissi sonore congiurate dai Bröderna Hårdrock, dell’abrasione estrema dei riff nucleari e sanguinolenti di Quorthon anno 1988, ma anche delle tenebre onniscienti della coppia della miracolosa doppia-enne di NödtveidtNorman e dei Necrophobic di “Darkside” (e, più in generale, di pressoché tutto ciò che ha reso grande il Black Metal in Svezia negli ultimi tre decenni), gli Ultra Silvam di episodi come “The Sanctity Of Death”, “Den Deicidala Transsubstantiationens Mysterium” ed “Incarnation Reverse” sono oggi un concentrato esplosivo di una tradizione tanto sfaccettata quanto lanciata con tracotanza e a mille chilometri orari verso l’iconoclastia di sé stessa, pronta a rovesciare la creazione in distruzione; radioattivo come scorie, ribelle e nervoso come un serpente velenoso, deflorante come in pochissimi possono permettersi di essere senza scadere nel qualunquismo musicale più totale.
Il successo dell’eccesso, altrove una condanna, è presto spiegato nel dialogo esecutivo tra i tre musicisti, che è tanto compatto da giustificare in sé ogni estremo salto pindarico di diversità che occorre tra una “Of Molded Bread And Rotten Wine” e una “Sodom Vises Himlafärd”, nell’autografo di esperti dinamitardi col gusto dell’assurdo e una propensione clinica alla follia, al volo brusco e sconclusionato su ottovolanti scalcagnati eppure sempre dritti al punto nella loro patologica e maligna mancanza di concentrazione assoluta. Ma è un finissimo stratagemma, in verità: anche volendo infatti tacere di un intermezzo come “Tintinnabuli Diaboli”, sia la composizione che gli sviluppi da riscoprire con la dovuta attenzione in una già citata quanto sorprendente “Sodom Vises Himlafärd” che nell’ancor più esplosivo e compatto secondo capitolo della “Förintelsens Andeväsen” nascondono più che un talento: una raffinatezza e quel tocco d’ingegno che sono la condizione necessaria per realizzare dei piccoli lavori di magistrale riuscita in seno ad un caos che sembra remare invece contro e ribollire primordiale, rombare da abissi ricolmi di pericolo e dannazione. Gli Ultra Silvam del pandemonio che apre la squisita “Incarnation Reverse” ne fanno però l’alleato fedele che permette non tanto di ammansirlo o stemperarne forza e violenza (a briglie sciolte e in verità, senza remore, lanciate come segugi apocalittici sull’ascoltatore) quanto di congiurarci insieme la tessitura organica ed integrata di melodie lucenti sebbene rigorosamente sfilacciate, tronche come quelle che graziano i rallentamenti bombaroli degli stessi sviluppi (dai sentori quasi medievali) del penultimo brano e dei suoi accordi presi in prestito dai Bathory che cavalcano insieme a Odino e le valchirie nei cieli del sanguinoso nord, ma soprattutto di “Black Soil Fornication” (che con i suoi giri concentrici d’apertura nelle battute finali suona quasi come una ballata maledetta); oppure del davvero strabiliante, inaspettatissimo finale della “Of Molded Bread And Rotten Wine” intrisa nel profondo ritmico di cassa e quattro corde distorte di quel Folk tanto caro ad Isengard e Storm, mentre quelle scintillanti chitarre sbilenche gli fremono innanzi e sopra come un firmamento disperso nel nulla, nell’assenza agghiacciante e schiacciante della luce, della stella di Betlemme che si spegne mentre sorge un’alba nera e il regno dell’oscurità: nella corona di serpi e santità della morte, nella sua aureola che è eclisse di sangue e che in sé tutto abbraccia e accoglie – e fa rivivere.

Così gli Ultra Silvam, tremendi avviker affezionati ad un’anormale norma musical-poetica che sembra provenire dai meandri dei secoli eppure essere ancora tutta da riscrivere (si badi!) da parte di chi l’ha realmente compresa, portano la propria proposta -che assume, a scanso di malintesi, nel nuovo “The Sanctity Of Death” i connotati di una vivida e personalissima firma- in territori inesplorati ma senza far perdere un briciolo di ferocia alle loro livide diavolerie messe su pentagramma, stupefacenti vetrate istoriate create non per catturare la luce bensì per vomitare refoli di oscurità come bocche ardenti dall’Inferno. Una scrittura persino poetica che funziona su due livelli contemporaneamente e ci ricorda altrettante cose: in primis, che solo la vera vocazione può organizzare con successo un brodo di confusione tanto eterodossa e pertanto graziato da sprazzi di autentica genialità quanto di scriteriato squilibrio; in secundis, che questa (loro) musica è ancora e sempre più trasformazione dell’umano in qualcosa d’altro: nel racconto in bianco e nero che si tinge di rosso e si fa metaforico ma anche sensoriale, del pane-corpo di un dio ammuffito e di un vino santo tramutatosi in sangue marcio; il suo fetore putrido e difficilmente sopportabile, tale per un motivo. Perché porta con sé una metamorfosi da vita a morte e viceversa, e con ciò una testimonianza, una allegoria che gli Ultra Silvam ci regalano e rammentano con la loro stessa permanenza nel reame catacombale della musica nera, una fugace ma incancellabile visione sonora degli occhi sporgenti di un infante che viene strangolato: che ogni possibile tentativo di esistenza è in fondo fatto per finire…

Dies irae, dies illa!

Matteo “Theo” Damiani

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